Pietro, tredici anni, scrive a Marianna, la chiama con mille nomi diversi oppure la contrae in una M puntata. Sappiamo che Marianna è una presenza sfuggente, anche eroticamente sfuggente, ma, aspetto ben più decisivo, sappiamo che è il suo unico interlocutore. E Pietro scrive. Scrive perché ha assolutamente bisogno di raccontare, di evocare desideri, di squadernare misteri, di dare una forma al caos della sua vita famigliare. Pietro e la sorellina, altrimenti chiamata ‟la mocciosa”, sono in balia dei genitori che si detestano e di una coppia di anziani baciapile, i Nespola, ai quali spesso vengono affidati. Vicini di casa e legati alla madre da un oscuro legame di dipendenza, i Nespola ammanniscono cibi ributtanti, pregano, tramano nell’ombra e sparlano del padre. Pietro e la sorellina capiscono che se l’ostilità fra i genitori diventa sempre più profonda è anche perché l’intrusione dei Nespola si fa sempre più minacciosa. Pietro addensa intorno a questa minaccia cupe fantasie di terroristi, di rapimenti, di delitti. Di tanto in tanto coglie sprazzi luminosi, quasi la realtà volesse lasciare intendere che una beatitudine esiste: un sorriso della madre, una gita al lago con il padre, il seno generoso della compagna di banco. Ma sono tracce sempre più sottili. Pietro vuole una vita normale. La vuole per sé e per la ‟mocciosa”. Vuole giustizia. E per avere giustizia, è pronto a tutto. È pronto a tradurre in un concreto piano di liberazione quello che era solo il sobbollire di un’immaginazione sofferente.