Questo libro parla di un settore ibrido che si potrebbe definire
"antropologia molecolare" e che riassume bene le incertezze della
scienza moderna. È un testo provocatorio, polemico, brillante e acuto che
intende dimostrare l’assoluta necessità di una scienza temperata dall’umanismo.
Il fatto scientifico da cui prende avvio è la prossimità genetica di uomini e
scimmie. Solo un misero 2% del nostro genoma ci separa da scimpanzé, gorilla e
affini: sapere questo ci aiuta, come sostengono molti, a capire la natura umana?
Condividiamo un quarto dei nostri geni con tutti gli organismi viventi, ma
nessuno ha mai dichiarato per questo che siamo margherite o lombrichi al 25%. La
controversia uomo-scimmia è il punto di partenza per una radicale correzione di
alcuni presupposti ingenui della nostra visione scientifica, per esempio la
convinzione del potere dell’ereditarietà di plasmare il nostro destino o la
capacità della scienza moderna di decretare come stanno le cose rispetto alla
nostra natura e ai nostri rapporti con le altre specie.
Che cosa significa essere scimpanzé al 98% è un libro pieno di fatti
interessanti, personalità curiose ed esempi coloriti, che vuole demistificare
la scienza della genetica umana, mostrando come spesso essa sia assoggettata a
logiche di tipo sociale e politico e dandoci gli strumenti per ripensare in modo
critico i suoi risultati più recenti. Marks dimostra come sia possibile
integrare la scienza contemporanea con le scienze umane, riconoscendole un ruolo
importante senza per questo svalutare altre forme di sapere: un passo avanti per
unire "le due culture" e regalare una base più ampia e più efficace
alla comprensione delle basi molecolari della vita umana.