Molti sono gli artisti che hanno visitato l’Altra parte, scendendo nel
regno delle ombre e di incubi naturali o provocati. Kafka frequentò quei luoghi
coscientemente, mascherando i suoi spettrali andirivieni nell’abitazione dell’assurdo
fingendo di fare, di giorno, l’impiegato in una compagnia di assicurazioni.
Alfred Kubin trovò da solo il condotto che reca a Perla, città artificiale
fatta di avanzi del passato e immersa in un perenne grigiore nella quale si
muove un popolo prigioniero di un incantamento che assomiglia alla più nera
nevrastenia. Altri, per varcare il confine, usarono mezzi più spicci:
Savonarola il laudano mescolato alla mirra e alla ruta per l’entusiasmo dei
mistici; Barbey d’Aurevilly l’etere e l’acqua di colonia per i suoi viaggi
estetizzanti; e poi la morfina di Stevenson e Nietzsche, il peyote di Artaud, la
mescalina di Michaux, che egli chiamò il suo "miserabile miracolo"; l’acido
lisergico di Kerouac, Burroughs e compagni. E altri ancora, da sempre e nel
futuro, credo.
Il regno delle ombre attira gli scrittori che hanno il privilegio di farne
cronaca di viaggio ad uso di chi è restato da "questa parte", ma si
può anche visitare l’Altra parte per caso: per un incidente, per ciò che si
chiama malattia. Un grumo di sangue nel cervello, per esempio. Inaspettato e non
voluto hacker che manda in tilt il nostro sistema di decifrazione e ci introduce
nel suo rovescio. Come se dallo schermo del nostro fedele computer fossimo
proiettati all’improvviso nei misteriosi circuiti che lo guidano, come se ci
trovassimo immersi nella liquidità dei cristalli che di solito,
servizievolmente, si aggregano per noi in cifre e parole. O come se un tappeto,
del quale stiamo ammirando i mirabili disegni geometrici, improvvisamente ci
girasse le spalle e ci mostrasse i labirinti di fili e di nodi che producono i
suoi disegni. La geometria consueta si è liquefatta: siamo dall’Altra parte.
Antonio Tabucchi