"Si ha il diritto ai 'diritti dell'uomo' se non si è cittadini?" si chiedeva Hannah Arendt nel suo "Le origini del totalitarismo". La sua non era una domanda retorica perché l'antisemitismo moderno inaugura un fenomeno nuovo nella storia contemporanea. Se inquadrato e analizzato a partire non tanto dalla pratica dello sterminio, bensì dal sistema di regole che lo precede, il problema dell'antisemitismo moderno rinvia al fatto che nella società civile si può diventare cittadini, ma si può percorrere anche l''iter' opposto: la retrocessione "da cittadino a straniero". Hannah Arendt ha sperimentato a lungo, con sofferenza accompagnata da estrema lucidità intellettuale, la sua condizione di 'apolide': straniera al mondo tedesco, osteggiata dalla sinistra e in conflitto radicale con il mondo ebraico di cui non condivideva atteggiamenti e scelte politiche. "Radicalità e solitudine" è il binomio della meditazione cui Hannah Arendt ritorna costantemente in questi scritti che coprono l'arco di più di venti anni fino al suo scambio epistolare con il grande storico della mistica ebraica Gershom Scholem, che, a proposito del suo libro su Eichmann ("La banalità del male"), la accusa di non amare il popolo ebraico. "Io non 'amo' gli ebrei," gli risponde Hannah Arendt, "sono semplicemente una di loro."
(David Bidussa)