Questo libro ricostruisce i modi in cui ha preso forma concreta la nostra
attuale idea di giustizia. L’analisi si sviluppa in un luogo e in un tempo
specifici: il Consolato di commercio di Torino nella prima metà del Settecento.
Ancora all’inizio del secolo convivono nel regno sabaudo, così come in molta
parte degli stati italiani ed europei, due procedure giudiziarie: il rito
ordinario (che prevede la presenza di giudici, avvocati, testi, scritti) e il
rito sommario, svelto, poco costoso, accessibile alla gente comune e considerato
ideale per risolvere in tempi brevi i contenziosi originati dal commercio. La
procedura sommaria permetteva di sostenere personalmente le proprie ragioni in
giudizio facendo appello "alla natura delle cose", richiamandosi a un’idea
di diritto basata sull’esperienza comune. Nell’arco di pochi decenni, questa
procedura fu sostituita da quella ordinaria che oggi ci è più familiare,
codificata e controllata da ordini professionali. La sostituzione si accompagnò
a cambiamenti culturali profondi. In particolare, comportò la delegittimazione
dell’esperienza comune come fonte riconosciuta del diritto, un peso
accresciuto delle gerarchie sociali come elementi essenziali del giudizio, la
nascita del monopolio di magistrati e avvocati nella conduzione del processo e l’affermarsi
di una concezione "alleggerita" della responsabilità giudiziaria,
condizionata da considerazioni legate allo status dei protagonisti e alle loro
intenzioni. Queste trasformazioni culturali così radicali non furono né lente
né progressive, ma avvennero in tempi relativamente brevi e attraverso processi
politici all’apparenza innocui che l’Autrice ricostruisce con pazienza per
mezzo di una fitta documentazione.