Nel secondo dopoguerra un numero senza precedenti di minori era separato dalla famiglia in Europa. Si trattava di un’autentica emergenza umanitaria. C’erano bambini nei campi di concentramento, in orfanotrofi o campi per profughi, alcuni senza casa, altri lontani dalla patria in quanto adottati o sfollati, altri ancora reclamati dal loro paese o coinvolti nelle deportazioni. Molti erano ebrei, sopravvissuti all’Olocausto o salvi perché nascosti e in esilio. Furono in tanti – educatori, psicologi, politici, militari, operatori sociali di varie nazionalità – a prendersene cura. Si cercò di soccorrerli, durante e dopo la guerra, offrendo loro assistenza materiale e riabilitazione psicologica. E ci si scontrò per decidere la sorte delle nuove generazioni, da cui dipendeva il futuro dell’Europa. I figli perduti, con originalità, studia la ricostruzione europea nel collasso generale di valori e gerarchie tradizionali scegliendo il punto di vista dell’infanzia dispersa. Inizia dalle prime forme di soccorso umanitario all’infanzia (nei casi del genocidio armeno, del primo dopoguerra o della guerra di Spagna), si concentra poi sulla seconda guerra mondiale e in particolare sul dopoguerra, sino alla guerra fredda. Analizza le politiche per l’infanzia, fondate su differenti teorie psicoanalitiche e su opzioni anche opposte – familistiche per gli anglo-americani e collettivistiche per i sionisti –, ma comunque declinate in termini nazionali. Tratta poi delle politiche demografiche e migratorie, di pulizia etnica e deportazione, che a Est e a Ovest riguardarono anche i bambini. E attraverso le soluzioni adottate nel “sommo interesse” dei minori racconta la più complessiva storia della rinascita degli stati e della democrazia, della dialettica fra ideali universalistici e valori nazionalisti, e dell’evoluzione nelle contrapposizioni politiche a livello internazionale.