Kapuscinski si prende un momento di pausa e riflessione e ripercorre le proprie vicende, raccontando retroscena finora ignorati delle sue storie: dall’infanzia povera a quando, fresco laureato, venne mandato allo sbaraglio prima in India e poi in Cina, senza conoscere niente di quei paesi. Ripercorre i viaggi in Africa, in Egitto, in Iran, poi di nuovo in Africa, rievocando sotto tutt’altra luce e con mano leggera le vicende storiche che ve lo hanno portato. Ci rivela le difficoltà incontrate di fronte alla vastità della materia da dominare, interpretare e giudicare. E, di fronte a queste difficoltà, il suo punto di riferimento, il suo livre de chevet, il testo da leggere e rileggere è sempre stato Erodoto. La lettura di Erodoto non di rado lo appassionava più del lavoro da svolgere. Erodoto, come Shakespeare, ha visto il microcosmo delle passioni umane e il macrocosmo delle vicende storiche. Da un lato ci ha narrato come la Grecia abbia ritardato di secoli l’avanzare dell’Asia in Europa e, dall’altro, ha rappresentato la brama di potere, la crudeltà, la cecità di piccoli e grandi satrapi. Erodoto fa capolino dalle storie di Kapuscinski, compare e scompare, viene chiamato a descrivere i meccanismi dell’animo umano, le sue grandezze, i suoi errori. Non siamo tuttavia di fronte a uno studio accademico o all’omaggio sentimentale dedicato a un autore molto amato. L’idea guida di Kapuscinski è che Erodoto è stato non tanto uno storico, quanto il primo vero reporter della storia: il suo bisogno di viaggiare, di toccare con mano, di raccogliere dati, paragonarli ed esporli, con tutte le necessarie riserve che è giusto nutrire riguardo alle storie riferite da altri, fa di Erodoto un giornalista a pieno titolo. Pur rimaneggiando la materia storico-politico-culturale che gli è sempre stata congeniale, Kapuscinski riesce a darci un’opera nuova: un libro che procede a zig zag, che descrive le cose con distacco, senza ombra di pedanteria, divertente nella sua serietà e serio nella sua leggerezza. Ancora una volta, Kapuscinski torna a dirci che per fare il reporter occorrono la testardaggine del bambino che assilla il padre con innumerevoli ‟perché?” e la certezza che tutte le culture, anche le più lontane, fanno parte dello stesso unicum che è l’uomo. E le confidenze autobiografiche che ci regala sono una deliziosa primizia da parte di un autore solitamente assai parco di notizie su se stesso.