Quelle di Rivas sono storie sbalzate in un mondo perduto tra le nuvole. Eppure contengono uno straordinario brivido di concretezza, affondano dolcemente spietate nei sentimenti, nelle incomprensioni e negli stupori, mischiando ossessioni ultramoderne e atavici dolori.
Rivas è soprattutto autore di racconti e qui sono riuniti i migliori delle sue tre più celebri raccolte, sotto il titolo di un gioiello narrativo che ha ispirato nel 1999 il film di José Luis Cuerda La lingua delle farfalle, vicenda imperniata sul rapporto tra uno scolaro e un anziano maestro rurale, tra le contraddizioni della Spagna allo scoppio della Guerra civile. Che vuoi da me, amore? è la lacerante storia di un ragazzino che s’improvvisa svaligiatore di banche con un giocattolo (e ci lascia le penne) per impressionare una ragazza che lavora in un supermercato e non lo considera. L’immenso camposanto dell’Avana ha per protagonista lo zio Amaro, specialista in morti apparenti da cui risorge sempre pettinato e profumato. Un fiore bianco per i pipistrelli è un piccolo perfetto noir su un poliziotto anticontrabbando che dà la caccia ai narcotrafficanti della costa gallega. Il boss locale, Don, riesce a farlo trasferire a un altro, innocuo servizio. Ma una sera si presenta in commissariato da lui una vecchietta convinta che il cattivo di una telenovela la voglia uccidere. Il poliziotto le dà spago e viene così a scoprire che si tratta proprio della madre (trascurata) del boss. E gliela riporta, prendendosi per una volta una minuscola rivincita. La vecchia regina prende il volo è una saga rurale su due compaesani amici da bambini e nemici per tutta la vita, che muoiono insieme. Il pappagallo di La Guaira parla di un emigrante che lavora come cliente-richiamo di un ristorante, quelli che mangiano presso la vetrata per attirare avventori. E quando faceva il muratore aveva un compagno di stanza il cui pappagallo chiamava sempre una tale Merceditas. Anche al suo paese d’origine c’era una ragazza con quel nome e l’emigrante, appena può tornare, va a cercarla, come per un’ispirazione. Ma scopre che è appena partita anche lei per l’America. In O’Mero il protagonista racconta al medico una complicata storia di tradimento in Madagascar per spiegare la malattia della moglie, e il medico abbocca, finché il taverniere del posto non gli dice che O’Mero non è mai stato in mare. E così via, in diciotto avvincenti episodi. Fedele al suo concetto di scrittura come ‟cammino di frontiera tra l’attaccamento e la perdita”, Rivas si sente un emigrante, ‟nato sul confine dei tempi, quello delle veglie davanti al camino, quando il fuoco e i merli ancora parlavano, e quello dei telefilm”, e spinto dall’inquietudine, con dentro quella lingua privatissima e periferica come unico mezzo per nominare il mondo intero. Le sorregge uno stile che alterna un’intensa poeticità a un altrettanto sobrio e incisivo realismo. La sua formula ideale sta nel racconto breve e compiuto, come un bagaglio leggero, una storia che si può regalare tutta in un breve incontro, in un intervallo felice, e che poi riecheggia a lungo nell’anima. Come un sax che dondola tra la nebbia, i fantasmi dei naufraghi che si scolano l’ultimo bicchiere o la lingua delle farfalle, molla di un orologio senza tempo.
‟Talvolta la letteratura ha lo straordinario privilegio di illuminare l’assurdità degli eventi che chiamiamo Storia e la crudeltà del gioco cieco in cui essa trascina i nostri destini. In certe pagine memorabili Manuel Rivas affida alla letteratura la sua più alta prerogativa che la sottrae al tempo e alle contingenze: esprimere la condizione umana”.
Antonio Tabucchi