Uno scrittore maturo sta avviando la stesura del suo nuovo romanzo. È incerto, insicuro dei propri mezzi. Lo diventa ancora di più quando incontra Gamurra, un ambizioso giovanotto che gli affida la sua opera prima sperando di essere aiutato. Il piccolo mondo della letteratura ronza, cincischia, spettegola: è un rumore di fondo che mal si concilia con il lavoro. Eppure è dentro quel mondo che Nicola Gamurra riappare ormai coronato dal successo, ed è in quel mondo che il protagonista corteggia, ricambiato, la ‟collega” Nadia Zanò, colta, inquieta, affascinante, tanto da far scricchiolare la lunga complicità coniugale che lo lega a Clara. La moglie avverte il malessere del marito e, in prossimità della sua partenza per gli Stati Uniti, cerca – lo ha sempre fatto – di difenderlo dalla fragilità del suo io, dalla violenza della immaginazione, dal desiderio di arrendersi al gioco della scrittura. Come da bambino il gioco dell’imperfetto (io ero, tu eri) lo trascinava lontano, morbosamente lontano, così ora il rischio di quel gioco ritorna, più forte, più drammatico. Solo, in un appartamento che si dilata ad amplificare suoni e segni, ad accogliere fantasmi del passato e bizzarri cortei di animali, lo scrittore cade in una sorta di trappola temporale. Il ritorno della madre e del padre – lei giovanissima, bella, dolente, lui vecchio o addirittura morto – dà l’avvio a una singolare, tesa convivenza. D’altro canto la madre è lì per rispondere a una domanda che ha a che fare proprio con il ‟male di scrivere”, con la labilità. La vita ‟vera” e la vita ‟finta” si allacciano, si slacciano, si combattono e, labili, si sfilacciano. Fino a che punto si può andare lontano senza cedere all’ovvietà della follia? Fino a che punto ‟tiene” il gioco dell’imperfetto?