‟Non so perché lei non voglia alleviarmi il dolore. Ogni giorno apre le persiane con violenza facendo in modo che il sole colpisca il mio volto. Non so cosa ci trova di bello nelle mie smorfie, ogni volta che respiro è una fitta. Forse la mia vita era già un po’ così ben prima della malattia e della vecchiaia, un dolorino fastidioso che mi pungeva senza tregua e poi, all’improvviso, un colpo atroce. Quando persi mia moglie, fu atroce. E qualsiasi cosa io ora ricordi, fa male, la memoria è una vasta ferita. Ma lei non mi dà le medicine, sembra quasi disumana. Credo che lei non faccia neanche parte del personale, non ho mai visto il suo viso qui intorno. Ma è chiaro, sei mia figlia, eri in controluce, dammi un bacio.”
Vecchio di cent’anni, Eulálio d’Assumpção giace moribondo sul lurido letto di un ospedale pubblico di Rio. In un inarrestabile monologo venato di lirismo amaro, rabbia e rimpianto, ma anche di una irresistibile ironia, racconta alla figlia, all’infermiera che gli inietta la morfina, e a chi vuole ascoltarlo, la sua vita, l’epopea della sua famiglia, sullo sfondo di due secoli di storia brasiliana. Ossessionato dalla figura della moglie Matilde, mulatta sensuale e libertina, e dallo sgretolamento della sua passata grandeur, traccia l’affresco di una saga familiare le cui origini risalgono allo splendore della corte di Rio de Janeiro e arrivano a oggi, seguendo una curva discendente di ineluttabile declino.
Nella prosa elegante del più amato poeta-cantautore- scrittore brasiliano, si costruisce il registro démodé di un uomo ostinatamente ancorato a un tempo che non è più, a un Brasile d’antan che sopravvive appena nel fragile territorio dell’illusione.