“Ecco come sono ridotti i giovani dalla maledetta avarizia dei padri – e poi ci si stupisce se i figli sperano che muoiano.”
Arpagone è un vecchio avaro, uomo d’affari e usuraio. Tutto nella sua esistenza, dal rapporto con i figli alla gestione domestica, è influenzato dall’ossessione per il denaro, in particolare per il suo tesoro più prezioso, una cassetta colma d’oro che cela seppellita in giardino per il terrore che qualcuno possa trovarla e sottrargliela. Quando l’avaro decide di imporre ai due figli Cleante ed Elisa matrimoni di puro interesse con una ricca vedova e un facoltoso anziano, i giovani, aiutati dai loro servi, si daranno da fare per contrastare i tirannici intrighi del padre con altrettante opposte macchinazioni. Ma nel momento in cui il servitore di Cleante scova il tesoro nascosto da Arpagone, va in scena il dolore di un uomo che ha perso il proprio bene più caro. Molière non ha tanto creato un’opera teatrale corale, quanto un personaggio che domina la scena, poiché tiene insieme l’Avaro con la maiuscola, ovvero il vizio, la sua figurazione astratta, con il personaggio “in carne e ossa” che si muove sul palco e con l’avaro minuscolo che tuttavia abita in ciascuno di noi. Un moderno uomo d’affari disposto a tutto pur di trarre il massimo profitto, in linea con la mentalità mercantilistica del tempo di Molière – e del nostro.