Nel linguaggio del Vasari il termine di "maniera" era sinonimo di
quello odierno di "stile", per cui al grande Aretino si può assegnare
la patente di primo "fenomenologo degli stili" per la vivacità con
cui chiarì le parti reciproche fra le tre "maniere" succedutesi nell’arco
di tempo che va da Cimabue a Leonardo, Michelangelo e Raffaello, culminando in
quella che egli definì la "maniera moderna". Il Vasari, ovviamente,
predicava l’obbligo di essere fedeli seguaci di questa "maniera
moderna", cui si attenne egli stesso come pittore, mentre condannava coloro
che non le si piegarono, dandosi invece a esprimere tormenti e furori affidati a
grafismi parossistici o a cromatismi squisiti. In questi ribelli o contestatori
avanti lettera (Pontormo, Rosso Fiorentino, Beccafumi, Giulio Romano,
Parmigianino, Tintoretto) la migliore storiografia del primo Novecento ha visto
gli antenati dell’arte contemporanea, ugualmente mossa da una vocazione
antinaturalista. La critica recente tende a cancellare le differenze in nome di
un’unificazione nell’unico concetto di maniera moderna o "bella"
maniera. Questo saggio invece si propone di riaccendere il conflitto
storiografico ribadendo le consonanze tra quella stagione e gli esiti più
intensi della contemporaneità.