La complessa eredità di un padre della patria nell’interpretazione del suo storico più celebre.
Fu la sanguinosa repressione del generale Bava Beccaris ai moti di Milano del 1898 a spingere il giovane socialista Salvemini, allora promettente studioso di storia medioevale, a spostare i propri interessi verso la storia contemporanea. Da dove nasceva la crisi che il giovane Stato italiano stava attraversando con la reazione di fine secolo? Le sue radici andavano ricercate nelle fragilità e negli errori della democrazia risorgimentale e in alcune ambiguità e contraddizioni di uno dei fondatori dell’Italia unita e indipendente: Giuseppe Mazzini. Se da una parte i principi di libertà e unità, l’ideale repubblicano e l’attenzione alla questione sociale rendevano Mazzini una figura fondante del movimento democratico, altri aspetti del suo pensiero e della sua opera non meno rilevanti ma spesso trascurati – come la centralità del riferimento a Dio e alcuni tratti dogmatici – si sarebbero dimostrati terreno fertile per successive istanze autoritarie. Analizzando la vita e le opere di Mazzini, e in particolare i suoi Doveri dell’uomo, Salvemini mette in luce sia il messaggio di libertà sia le ambiguità teoriche del padre della patria, grazie alle quali del pensiero mazziniano “ciascuno attingeva e adottava quelle parti che corrispondevano al proprio stato d’animo, e trascurava o non comprendeva il resto”. La riflessione di Salvemini si sposta quindi sulla fortuna di Mazzini e sui suoi diversi usi politici, culminati nell’utilizzo che ne avrebbe fatto il fascismo preparando, un quarto di secolo dopo le cannonate di Bava Beccaris, la propria svolta dittatoriale.