La poesia civile è ancora "uno strano dovere" quando la Storia ricomincia a correre, al tempo del Rap? E con quali ritmi e linguaggi potrà cantare, oggi, la Musa Civica? Nel suo primo "album" Alberto Arbasino mixava rap e strofette con la casalinga di Voghera e la Sora Cecia, i couplets del cabaret intellettuale nella Milano impegnata e gli epigrammi ironici della Dolce Vita romana, fra le memorie ancora vive degli amici cari che non ci sono più: Goffredo Parise, Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino, Gianni Testori, Giorgio Manganelli, Toti Scialoja... Era l'Italia delle ultime elezioni, il tempo delle ridicolaggini e della satira, il "mondo di ieri" prima dei disastri. Era ieri, ma sembra parecchio tempo fa. Ora, questo nuovo album registra sul campo un'Italia e un mondo e una poesia e un rap e un rock che "non sono più i medesimi". Non siamo dunque a un concerto pieno di "numeri" da applaudire, o a una mostra di quadri da riverire su ogni parete. Ci troviamo piuttosto in un loft – un po' hard e un po' cool – dove si accumulano e si mescolano i comò Impero e le radio del Quaranta, le pile dei cd e le porcellane da pizzeria cinese, le argenterie della nonna e i collages pop e il kitsch dell'aeroporto di San Francisco... E lì si aggira uno strano dj, in preda a un audio interno molto scapestrato a molte piste che gli riportano (già shakerati) i fox-trot dell'infanzia, i versi di Parini e Metastasio imparati a scuola, i libretti d'opera di Felice Romani, Wagner e Frank Sinatra cantati in italiano, spiritosate di vecchi veneziani e napoletani e milanesi, balletti di Stravinskij e meditazioni minimaliste, insieme con le battute allucinanti dell'Italia zombie in presa direttissima.