A partire dal 1948, con l’adesione delle Nazioni Unite alla Dichiarazione
dei diritti dell’uomo, la difesa dei diritti umani è diventata per il mondo
occidentale un motore di progresso morale e una bandiera che ha permesso di
spezzare il monopolio degli stati nazionali. Ma l’aver innescato un processo
positivo di controllo sovranazionale ha posto il problema dello statuto di
legittimità dei diritti in contesti culturali differenti. Per chi sostiene la
loro universalità, i diritti umani trascendono il tempo, la cultura, l’ideologia
e i sistemi di valori, e sono attributi inalienabili degli esseri umani sempre e
ovunque. Altri, al contrario, ritengono che le azioni sociali possano essere
comprese e valutate soltanto secondo principi noti o familiari a una certa
cultura. Michael Ignatieff, basandosi sulla propria esperienza in Bosnia, in
Rwanda e in altre regioni di conflitto etnico, e seguendo in questo il suo
maestro Isaiah Berlin, sostiene che i diritti umani sono universali solo quando
sono rivolti a proteggere la sicurezza e la libertà di autodeterminazione degli
individui. In altri casi, occorre adottare un punto di vista più pragmatico,
che si rivela spesso più adatto allo sviluppo effettivo del progresso sociale.
Non tutte le critiche avanzate dai paesi asiatici, dal mondo musulmano e anche
all’interno dello stesso mondo occidentale agli attivisti dei diritti umani
sono infondate. Occorre evitare che i diritti umani diventino una forma di
moderna idolatria, rendendo ciechi alle differenze. Questo libro, che raccoglie
due conferenze tenute all’Università di Princeton, ha il merito di discutere
con chiarezza le questioni più spinose legate al rapporto fra tutela dei
diritti, sovranità nazionale, differenze culturali.