Aurora Tamigio ci accompagna dietro le quinte della sua scrittura con un brano inedito, La Sindaca, poi tagliato dal suo romanzo Il cognome delle donne.
Nella bottega della sarta si tagliano i tessuti, si accorciano le gonne, così come nella bottega dello scrittore si tagliano dettagli, personaggi.
C’era una donna che veniva a farsi sistemare i vestiti dalla Cuttancina, si chiamava Immacolata Sanna, detta la Sindaca perché suo marito era stato primo cittadino di San Benedetto al Monte Cenere dal 1928 al 1938. Era un notaro, figlio di notaro e nipote del nipote di un notaro, rispettato e ricco senza farsene vanto. La casa in cui abitava si diceva avesse trecento anni e che dentro, una volta, ci fosse venuto a riposare il pazzo Principe di Palagonia. Già prima di diventare la Sindaca, Immacolata era stata cresciuta per sposare il notaro Sanna e, dopo, non aveva avuto altro scopo che essere sua moglie e dargli dei figli. Quando la Sindaca veniva alla bottega prendeva appuntamento per tempo, così che la Cuttancina avesse modo di fare ripulire le stanze, soprattutto il camerino delle prove, e di consigliare, che voleva dire obbligare, le cucitrici a vestire con decoro e ad arrivare puntuali, ovvero molto prima del solito.
La prima volta che aveva visto la Sindaca alla bottega, Selma si era scoperta a indovinare quanti anni avesse: la bocca rugosa e i capelli grigi come il silicio della montagna, credeva fosse una vecchia, invece qualche anno in più di sua madre Rosa. La Sindaca nella vita aveva avuto dodici figli e il motivo per cui era tanto in rapporti con la Cuttancina era che, ogni volta che faceva un bambino o una bambina, si presentava a bottega a farsi aggiustare le gonne e le giacche che indossava, per aggiungere o togliere taglie. Di questi suoi figli, quattro erano morti piccoli, due erano partiti per la guerra e mai tornati, uno era caduto in Russia e il corpo ancora non era stato restituito, gli altri abitavano a San Benedetto. Quando la Sindaca veniva, la Cuttancina la riceveva con la simpatia che si riserva alla venditrice di pastarelle la domenica e insieme con la grazia con cui si accoglie il prete per la benedizione di Pasqua: la faceva entrare, le indicava la stanzina delle prove e poi chiamava a sé una delle sue sarte. La Sindaca era una cliente fedele, di indole facile e di chiacchiera svelta, portava sempre qualche dolce di sesamo da dividere tra le sartine dentro il negozio oppure un cestino di mandarini o un sacchetto di semi di anice da masticare. L’ultima gravidanza, , le aveva dato un problema per il quale dallo stomaco le arrivava in bocca un sapore di amaro: se poteva, perciò, cercava di tenere sempre sulla lingua qualche cosa di buono o di dolce. E, volentieri, quello che acquistava per sè per sé, lo condivideva con le altre persone. Ormai la Sindaca non faceva più figli ma, ugualmente, veniva a farsi sistemare gli abiti che possedeva: invecchiando, restava alta, ma la vita si faceva più scarna, le braccia perdevano vigore e le pareva decoroso coprirsi fino a metà collo, lei che si era vantata tutta la vita del petto abbondante e della carne florida. La Cuttancina le aveva suggerito di farseli nuovi almeno due o tre di questi abiti, per non continuare a rattoppare e sfilacciare. Ma la Sindaca aveva la testa dura. “A vestire un asino buono nemmeno più come carne da zuppa si spende inutilmente”. E aveva aggiunto che questi belletti non le servivano alla sua età. Solo dopo molto insistere, la sarta l’aveva convinta a pagare per un cappotto, un completo nero da lutto e un abito da sera estivo per il teatro. Mentre Teresa e la nuova cucitrice, Palma, entrata da pochi mesi, le sistemavano gli orli delle giacche vecchie, la Cuttancina aveva chiesto a Selma di occuparsi lei di questi nuovi confezionamenti. Le aveva detto: “In futuro di ricami ne serviranno sempre meno. Ti servirà sapere cucire qualche cosa che la gente si mette addosso”.
Così Selma si era dedicata, al fianco della Cuttancina, a imparare come si prendevano le misure e come si componevano gli abiti pezzo dopo pezzo. La sarta le aveva chiesto se sapeva leggere bene, perché allora le avrebbe prestato alcune riviste su cui c’erano le mode, che lei doveva studiare per inventarsi quello che occorreva alla Sindaca per andare a teatro e che sarebbe servito ad altre clienti per un giro in carrozza tra le campagne o in mezzo alle vie della città. Selma era stata una volta sola, nelle campagne a valle, da bambina, insieme a suo padre, e in città non sapeva nemmeno come ci si arrivava. Eppure si era presa lo stesso quelle riviste. Con mille ringraziamenti, le aveva avvolte nella carta pulita del pane, perché sul carro Nena non diventasse gelosa che prima le rubava l’innamorato e dopo il lavoro come confezionatrice. Una volta arrivata a casa, seduta nel suo cortile, Selma aveva aperto questi cataloghi: aveva scoperto che c’era un mondo in mezzo alle stoffe, che non esistevano solo il grigio, il nero e il bianco, che le donne potevano andare vestite in molti modi. Che non tutti i vestiti erano stretti perché chi li portava ci era cresciuto dentro, ma che una ragazza giovane poteva portare una taglia di meno - così dicevano le riviste della Cuttancina - a patto che fosse la vita a stringere e non le spalle, che chiudessero bene i bottoni e venissero tagliati con precisione gli orli.
La Sindaca, alla fine, i suoi abiti mondani li aveva voluti neri e grigi, quello estivo color crema. Ma intanto Selma si era messa a pensare, che ora che Santi Maraviglia la sposava e la portava in giro per i quattro paesi, magari a valle e fino al mare o - fantasia - in città, avrebbe potuto cucirselo da sola un vestito alla moda. I colori consigliati, per chi era bionda di capelli, erano l’azzurro e il verde: sarebbe stata la prima a San Remo a Castellazzo con un abito ricopiato da un giornale, un abito che non avrebbe rifatto uguale a nessun’altra, neppure a Nena. E tutti avrebbero detto che la moglie di Santidivetro forse non era bella quanto lui, ma elegante eccome. Selma aveva deciso che si sarebbe dedicata al suo vestito azzurro o verde una volta terminato l’abito da sposa che si stava facendo con le stoffe regalo di nozze della Cuttancina; ci si metteva ogni giorno, nel tempo che le restava dopo il lavoro e dopo le faccende a casa e all’Osteria. Terminati i suoi doveri, tutti quanti, sedeva sul materasso al piano di sopra, visto che da alcune settimane era stato deciso che il suo cortile, da un momento all'altro, doveva diventare una casa, e che il patio davanti - diceva Rosa - non era il posto dove cucirsi l’abito nuziale. A Selma stare al chiuso non piaceva. Perdeva presto il fiato e si impappinava non appena la luce svaniva; in più la schiena le faceva male per il troppo piegarsi. Ma era lo stesso nelle stanze sopra l’Osteria che aveva terminato il vestito bianco. Mentre, al posto del suo cortile, prendeva forma la casa in cui avrebbe vissuto con Santi Maraviglia.
La prima volta che Rosa le aveva visto addosso l’abito, le era sembrato troppo stretto. “Pare che abbiamo risparmiato e ci siamo fatti dare il vestito di qualche altra”
“Così è la moda, mamà”.
Il vestito bianco non era stretto, era come piaceva a Selma: la copriva dal collo alle caviglie, col corpino ricamato a onde, chiuso sulla schiena da trenta piccoli bottoni tutti alla stessa distanza l’uno dall’altro. Ma che ne sapeva sua madre della moda.
Il cognome delle donne di Aurora Tamigio
All’origine c’è Rosa. Nata nella Sicilia di inizio Novecento, cresciuta in un paesino arroccato sulle montagne, rivela sin da bambina di essere fatta della materia del suo nome, ossia di fiori che rispuntano sempre, di frutti buoni contro i malanni, di legno resistente e spino…